
Quando si parla di politica e tv si punta il dito sulla Rai, ma si indica solo parte del problema. La storia è nota e va avanti da oltre un trentennio. Non è mai stata esempio di pluralismo, ma quando ci sono in ballo gli interessi del capo Mediaset diventa l’arma più forte nelle mani di Berlusconi. Con una reazione quasi pavloviana si fa strumento di propaganda (ma le lodevoli eccezioni ci sono) e non c’è giornalismo, autonomia professionale o soltanto senso del decoro che tenga. Compaiono allora, quando va bene, i laudatores del capo, quando va male, i bastonatori degli avversari. Un’ipotesi quest’ultima che abbiamo visto all’opera tante di quelle volte che a sentir parlare oggi di un Berlusconi pacificatore si fa fatica a non ridere.
Il processo di beatificazione del capo da parte dei suoi media, in primis quelli televisivi, cui in queste settimane abbiamo assistito nel tentativo inutile di spianargli la strada al Quirinale, denuncia ancora una volta un sistema malato. Ci riferiamo al sostanziale duopolio che garantisce a un unico imprenditore il possesso di quasi tutto il comparto privato e che testimonia di una questione televisiva che va oltre la Rai. E che di duopolio si tratti lo confermano i numeri: per esempio nella settimana 8-15 gennaio Mediaset si è accaparrata con i suoi canali (3 generalisti, 12 speciali più le pay-tv) il 35% dello share mentre un altro 35% è stato appannaggio del servizio pubblico; il resto si è polverizzato in ascolti molto piccoli a eccezione di Discovery che ha raggiunto il 7%. È un assetto antico che la rivoluzione digitale non ha scalfito.
Questo già grave squilibrio diventa poi intollerabile quando a esso si aggiungono propaganda e faziosità. Ebbene, c’è stato chi in questi giorni ha ricordato la nascita del Tg5: bisognerebbe però non dimenticare che si tratta di un tg che sa dove schierarsi nei momenti che contano. A novembre e dicembre, per dire, il tg diretto da Mimum ha concesso a Forza Italia la fetta più grossa del tempo di parola e di quello di notizia, offrendo (dicembre) al centrodestra addirittura 39 minuti di parlato, tempo che equivale a quanto hanno raccolto insieme il premier e gli esponenti di governo. Mentre al Pd, M5S e Iv, per capirci, solo 15 minuti. Se dal Tg5 ci spostiamo ai principali talk di Rete 4 la liturgia si fa più greve, dettata e celebrata puntualmente dalla destra; suoi i temi, suoi i protagonisti. Anche qui parlano le cifre: tra settembre e dicembre sui talk di Rete 4 la scena se la sono presa, nell’ordine, Sgarbi (6 ore e 45 minuti), Salvini (3 e 51’), Crosetto (3 e 51’), Meloni (3 e 44’), Feltri (2 e 44), tanto per fermarci ai primi cinque, con pochi altri di diverso parere a fare la comparsa per legittimare una farsa di pluralismo. Sono anni però che l’opinione pubblica si è come mitridatizzata sul problema della tv e del conflitto d’interessi. Ci si preoccupa, a ragione, della lottizzazione della Rai ma ci si dimentica del latifondo Mediaset.
Ora è vero che è stato fortunatamente scongiurato il rischio di avere un capo dello Stato padrone di mezza tv e di due terzi della pubblicità, ma in passato abbiamo avuto un premier in questa abnorme condizione, per di più sommata al controllo delle reti pubbliche. Neanche Trump ha coniugato una simile contraddizione: in America la Fox, pur partigiana, non è di sua proprietà e poi è solo un pezzo di un sistema tv ampio e complesso. Una destra seria il problema se lo sarebbe posto da un pezzo. Ma anche una sinistra degna di questo nome avrebbe dovuto farlo, invece di acconciarsi al patto indecente di cui si vantò Violante alla Camera nel 2002.
Il risultato è che la questione Mediaset è sempre lì, anche se non la si vuol più vedere. E dire che c’è chi pensa all’elezione diretta del capo dello Stato. Così restando le cose, se non è in malafede, non è sano di mente.
Articolo di Giandomenico Crapis pubblicato su Il fatto quotidiano