Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) si incardina su due assi portanti, entrambi frutto degli accordi con la UE sulla gestione del Recovery Fund: da una parte gli investimenti devono garantire una solida ripresa economica e un riequilibrio delle disuguaglianze territoriali, dall’altra devono operare in favore di un cambio di paradigma dell’economia, favorendo una transizione dei sistemi produttivi e sociali che sia più rispettosa dell’ambiente, degli ecosistemi, della biodiversità e che contribuisca alla riduzione delle emissioni di gas serra.
Le prime mosse del governo sembrano aver ottemperato a questi propositi solo dal punto di vista formale. I fondi destinati alle regioni meridionali sono già sulla carta inferiori a quelle che erano le raccomandazioni europee ma, più si approfondisce lo studio del mastodontico PNRR, più appare chiaro che non ci sono certezze che quei fondi verranno davvero spesi nei territori ai quali dovrebbero essere destinati formalmente.
Ma veniamo al fronte ambientale. Il governo Draghi vede la sua travagliata nascita, in gran parte incentrata sulla nascita di un nuovo ministero, il Ministero della Transizione Ecologica (MiTE), che nelle aspettative doveva accorpare molte delle deleghe che prima erano assegnate all’ex Ministero dell’Ambiente e della tutela del territorio e del mare e al Ministero dello Sviluppo Economico, per operare la cosiddetta Transizione Ecologica. Nella realtà è stato cancellato il MATTM e il nuovo ministero sembra essere una sorta di dicastero chimera che si occupa essenzialmente di tecnologia, politiche energetiche e industria, lasciando che i temi ambientali aleggino come un leggero lenzuolo. L’ambiente viene utilizzato come parola chiave per ogni iniziativa, ma solo a scopo di copertura propagandistica, mentre le politiche che si attuano, nella migliore delle ipotesi sono ecologicamente neutre, quanto non del tutto controproducenti, al punto che ormai il MiTE viene sarcasticamente rinominato Ministero della Transizione Eco(il)logica.
L’attenzione all’ecologia si è concentrata quasi esclusivamente sull’utilizzo spasmodico e totale delle nuove tecnologie e sulla transizione, non ecologica, ma energetica, con l’obiettivo di aumentare di 30GW la produzione di energia da fonti rinnovabili, peraltro senza chiarire esattamente cosa si intenda con fonti rinnovabili, e costi quel che costi. E costa! Tanto! Anzi costerà sempre di più visto che il mercato di minerali come il litio, il cobalto o le terre rare è facilmente monopolizzabile (e in gran parte già lo è) e i prezzi di questi elementi, infatti, sono schizzati alle stelle.
Ma poi c’è la questione biodiversità, che appare essere del tutto sconosciuta ai relatori del PNRR, tanto che la parola viene usata nel testo solo due volte (e tutte e due le volte a sproposito) e alla sua tutela sono stati destinati solo lo 0,04% dei fondi e quasi tutti sotto la voce “digitalizzazione delle aree protette” (qualsiasi cosa voglia dire), ignorando completamente le indicazione dell’UE nella strategia per la biodiversità 2030.
Eppure i Parchi e la Rete Natura 2000 potrebbero risultare essenziali anche in chiave di riconversione energetica, in quanto le aree verdi, così come quelle marine, sono tra i principali responsabili del sequestro di CO2 compensandone la produzione antropica e facilitando il raggiungimento degli obiettivi europei.
Ed ecco arrivare la doccia fredda, non solo ai parchi vanno le briciole, ma i fondi già stanziati del programma “Parchi per il clima”, circa 80 mln di euro, sono stati scippati ai parchi per essere dirottati nel fondo destinato al contenimento degli aumenti delle bollette energetiche, con il paradosso che fondi destinati al contenimento dei mutamenti climatici, finiscono per finanziare il sostegno ai combustibili fossili. Il tutto mentre la Commissione europea ha aperto un’ennesima procedura di infrazione contro l’Italia perché la rete nazionale dei siti Natura 2000 non copre adeguatamente i vari tipi di habitat e le specie che necessitano di protezione. In queste condizioni come si ha il coraggio di parlare di Transizione ecologica?
Dopo la dura presa di posizione della Federparchi e delle associazioni ambientaliste, il ministro Cingolani spiega in una nota che “Non abbiamo alcuna intenzione di far toccare i fondi per i parchi, che sono scrigno di biodiversità, necessitano anzi di essere valorizzati nel solco dello sviluppo sostenibile. II programma Parchi per il Clima resta finanziato con la sua dotazione originaria e non potrebbe essere diversamente, data la grande rilevanza delle attività collegate e il ruolo centrale delle aree protette nella lotta agli sconvolgimenti climatici e nell’impegno comune per la transizione ecologica.”
Ne prendiamo atto e speriamo che queste parole siano seguite dai fatti, ma nel frattempo non possiamo che stupirci del fatto che avvengano queste cose e che vengano derubricate a “errori”.
No caro ministro! Un errore è scrivere “qual’è” con l’accento, ma far sparire 80 mln di euro e dirottarli verso un obiettivo opposto a quello per i quali erano stati stanziati, non è un errore; a pensar bene è cialtronaggine, a pensar male è un tentativo maldestro di finanziare le lobby energetiche sperando di farla franca, tanto della biodiversità a chi importa?
Inoltre, ammesso che alla fine questi soldi ritornino ai destinatari originali, si riproporrà il tema per il 2022: si utilizzeranno di nuovo i fondi Ets*, che teoricamente servirebbero a ridurre le emissioni di CO2, per ridurre l’aumento delle bollette causato dall’utilizzo di fonti fossili? È così che si intendono utilizzare i fondi del Recovery Fund? È questo che si intende per Transizione Ecologica (o energetica, come sarebbe più appropriato chiamarla)? È così che si vuole contrastare il cambiamento climatico? Quanti casi di transizione eco(il)logica dobbiamo ancora attenderci?
Sono domande che attendono con urgenza una risposta, perché su questi temi non è più il momento di giocare e di fare gli interessi di parte, come ci dimostrano ampiamente i recentissimi disastri in Germania e in Cina.
Questo è il momento perché questo paese maturi un reale programma di tutela ambientale, ne va del futuro prossimo di tutti noi.
*L’Emission trade scheme (Ets) è quel sistema che fissa un limite massimo di produzione di CO2 agli aderenti lasciandoli liberi di acquistare e vendere sul mercato eventuali diritti di emissione aggiuntivi. È un sistema cap&trade perché fissa un tetto al livello di emissione consentito a tutti i soggetti vincolati dal sistema, ma consente di acquistare e vendere sul mercato diritti di emissione di CO2 (Fonte: Il Sole 24 ore).
MARCO INFUSINO – Primavera della Calabria